L’emicrania è la terza patologia più frequente del genere umano e la più disabilitante in assoluto se si considerano le donne di età fino ai 50 anni. In Italia sono quindici milioni le persone che hanno manifestato almeno un episodio di emicrania nella loro vita, di questi undici sono donne che presentano i quadri clinici più gravi in termini di complessità, disabilità e comorbilità rispetto agli uomini. Questa malattia cronica ha altissimi costi umani, sociali ed anche economici. Si stima, infatti, che in Italia il costo annuale per paziente con emicrania sia pari a 4.352 euro.
Fondazione Onda, Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere presenta il Manifesto in dieci punti “Uniti contro l’emicrania” per promuovere una maggior consapevolezza sulla malattia, un tempestivo e più facile accesso ai percorsi specialistici di diagnosi e cura e in particolare alle strategie terapeutiche più efficaci e innovative.
L’emicrania è una malattia ad andamento cronico ed è, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la terza patologia più frequente del genere umano e la più disabilitante in assoluto se si considerano le donne di età fino ai 50 anni. In Italia sono 15 milioni le persone che hanno manifestato almeno un episodio di emicrania nella loro vita, di questi 11 sono donne. Secondo l’indagine “Vivere con l’emicrania” condotta nel 2019 dal Censis, che analizza in maniera approfondita il fenomeno, si può parlare a pieno titolo di patologia “di genere”. Ad esempio, la malattia appare più debilitante per le donne, che definiscono “scadente” il proprio stato di salute nel 34 per cento dei casi contro il 15 per cento degli uomini mentre il tempo medio per arrivare a una diagnosi è doppio per le donne, quasi 8 anni, rispetto agli uomini, per cui parliamo di 4 anni. Inoltre, sono le donne ad avere gli attacchi più lunghi: il 39 per cento ha attacchi di emicrania che superano le 48 ore contro il 12 per cento degli uomini e sono sempre le donne a lamentare maggiormente anche la riduzione delle attività sociali (43 per cento vs 21 per cento) con difficoltà che si manifestano sul lavoro (40 per cento vs 27 per cento), nello svolgimento delle attività domestiche e familiari (36 per cento vs 18 per cento) e nella gestione dei figli (19 per cento vs 8 per cento). In generale, il 70 per cento dei pazienti dichiara di non riuscire a fare nulla durante l’attacco e il 58 per cento vive nell’angoscia dell’arrivo di una nuova crisi.
Per richiamare l’attenzione sul tema dell’emicrania e portare avanti un impegno corale che coinvolga non solo la società civile e la classe medica ma anche le Istituzioni, Fondazione Onda ha realizzato il documento “Emicrania: una patologia di genere” che contiene il Manifesto in dieci punti “Uniti contro l’emicrania” presentato oggi con il patrocinio di AIC (Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee), AINAT (Associazione Italiana Neurologi Ambulatoriali Territoriali), AL.CE – (Alleanza Cefalalgici Group CIRNA Foundation ONLUS ), ANIRCEF (Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee), FISC (Fondazione Italiana per lo Studio delle Cefalee Onlus), SNO (Società dei Neurologi Neurochirurghi Neuroradiologi Ospedalieri italiani) e con il contributo incondizionato di Allergan an Abbvie Company, Lundbeck e Teva.
“Sebbene sia una delle patologie neurologiche di cui si possiedono maggiori conoscenze scientifiche e per le quali sono disponibili farmaci innovativi e specifici”, commenta Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda, “l’emicrania rimane ancora misconosciuta, sotto-diagnosticata e non adeguatamente trattata. Il Manifesto mette a sistema le dieci azioni necessarie per promuovere una maggior consapevolezza sulla malattia, un tempestivo e più facile accesso a percorsi specialistici personalizzati di diagnosi e cura e, in particolare, alle strategie terapeutiche più efficaci e innovative: una call to action per raccogliere un impegno concreto, collettivo e coordinato, per offrire una migliore qualità della vita a tutte le persone che soffrono di emicrania. Il Manifesto mira, dunque, ad essere un appello concreto per richiamare l’attenzione su questo tema e sollecitare ad unire le forze in un impegno collettivo multistakeholder volto a migliorare la qualità della vita di tutte le persone che ogni giorno combattono contro il dolore, la sofferenza e lo stigma legati a questa malattia. L’approvazione dal Senato, nel luglio 2020, del testo unificato del disegno di legge per il riconoscimento della cefalea cronica come malattia “sociale” è stato un primo, importante passo in questa direzione, ma c’è ancora molto da fare”.
Tra i punti principali del Manifesto: la necessità di promuovere campagne di sensibilizzazione, potenziare i collegamenti e le sinergie tra i professionisti del territorio e i centri cefalee, garantire un accesso tempestivo ai percorsi diagnostico-terapeutici riducendo i tempi della diagnosi, potenziare la formazione dei medici della medicina generale e specialistica, promuovere l’innovazione terapeutica e facilitarne l’accesso, ridurre l’impatto economico della malattia attraverso la presa in carico precoce del paziente.
“Gli ormoni sessuali femminili hanno un ruolo cruciale nella determinazione delle differenze di genere che si osservano nell’emicrania”, sostiene Piero Barbanti, Presidente ANIRCEF, Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee e Presidente AIC Onlus, Associazione Italiana per la Lotta contro le Cefalee. “Esiste, infatti, una correlazione tra le cicliche variazioni ormonali, in particolare degli estrogeni, e la ricorrenza degli attacchi emicranici. L’emicrania compare nella donna tipicamente dopo il menarca, presentando durante l’età riproduttiva una caratteristica periodicità che correla con le fluttuazioni ormonali: le fasi di maggiore severità si osservano infatti nel periodo mestruale e ovulatorio. Ma la prevalenza dell’emicrania nella donna non è solo questione di ormoni. La maggiore velocità del cervello femminile lo espone infatti a maggiore rischio di attacchi. È essenziale una diagnosi tempestiva per instaurare le cure corrette, ridurre il rischio di cronicizzazione e di iperuso di farmaci ed evitare inutili peregrinazioni. Questo purtroppo ancora oggi non avviene. Il progetto IRON (parte del registro italiano dell’emicrania I-GRAINE) - condotto su 866 pazienti affetti da emicrania cronica visitati presso 24 centri cefalee italiani - ha infatti documentato che l’intervallo che intercorre tra l’esordio dell’emicrania ed il primo accesso ad un centro cefalee è pari a circa 20 anni e che l’80 per cento degli esami diagnostici eseguiti nel frattempo è perfettamente inutile. Infine, lo studio IRON ha dimostrato che il paziente con emicrania cronica consulta in media da 8 a 18 diversi specialisti nel corso della propria vita, a causa dell’emicrania. Occorre dunque elevare il livello di preparazione dei medici sul tema dell’emicrania cominciando dalla formazione universitaria, molto carente a questo riguardo. Ma occorre anche allargare il numero dei centri cefalee universitari, ospedalieri e territoriali sul territorio nazionale, definendo allo stesso tempo percorsi specifici affinché ciascun paziente incontri la giusta figura medica per la propria emicrania, sulla base della sua complessità”.
Questa malattia ha quindi altissimi costi umani, sociali ma anche economici: si stima che in Europa soffrire di emicrania costa complessivamente dai 18 ai 27 miliardi di euro, mentre in Italia, stando ai dati raccolti dallo studio My Migraine Voice, è stato calcolato che il costo annuale legato alla perdita di produttività in persone con 4 o più giorni di emicrania al mese ammonti a 7,6 miliardi di euro. L’emicrania porta spesso chi ne soffre a una perdita di produttività: secondo lo studio Gema - Gender&Migraine del 2018, effettuato su un campione di 607 pazienti adulti con almeno quattro giorni di emicrania al mese, e realizzato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) e dall’Università Bocconi, il costo annuale stimato per paziente con emicrania è pari a 4.352 euro di cui il 25 per cento per prestazioni sanitarie, il 36 per cento per perdite di produttività, il 34 per cento per assistenza informale e il 5 per cento per assistenza formale; è stato evidenziato, inoltre, che nel genere femminile è più frequente il fenomeno del “presentismo”: le donne si recano al lavoro seppur in condizioni di malessere per 51,6 giorni all’anno contro i 35,6 degli uomini; nonostante ciò, sono sempre le donne a perdere più giorni di lavoro e di vita sociale all’anno rispetto agli uomini, rispettivamente, 16,8 vs 13,6 e 26,4 vs 20.